L’emergenza è cominciata il giorno del compleanno di mia figlia: il 21 febbraio.

Stavamo seguendo da mesi la sua evoluzione, dalle dimensioni del focolaio terribile in oriente si capiva che non si sarebbe limitato a quella zona. Io l’avevo detto, ma come sempre, novella Cassandra, non mi hanno creduto.

Ora che siamo chiusi in casa e ci è vietato uscire, se non per andare a lavorare, far la spesa o andar dal medico, nessuno di noi ha veramente elaborato il passaggio repentino dalla serenità all’angoscia. Perpetrata ad ogni istante, se si tiene il televisore acceso, dal passaggio ogni 3 minuti di un messaggio che invita a lavarsi le mani, non uscire se non indispensabile, non toccarsi naso e occhi, tossire nella piega del gomito.

Io vado a lavorare e lì è ancora pieno di clienti che chiamano con richieste , domande, pretese per consegne in tempi “standard”. Come se in un mese la nostra vita non fosse completamente stata cambiata, stravolta. Come se facessimo tutti finta di non renderci conto che ci sembra di essere appesi ad un filo. E quindi ribadire certe routine possa fare da schermo ad una realtà nuova che non ci piace.

“Quando mi arriva questa merce? Mi serve giovedì”

“Guardi, a causa di quello che sta accadendo (nel mondo n.d.r.) i camion fan fatica a scendere dal Belgio; non si trovano autisti disposti a venire in Italia dalla Romania, la Francia sta chiudendo i confini, l’Ungheria ha bloccato gli ingressi e comunque gli autisti vengono continuamente fermati per i controlli, ci mettono il triplo del tempo a scendere”

“Non mi interessa, il vostro transit time è 48 ore. La voglio qui giovedì ”

Beata innocenza.

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